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    Il cardinale Josyf Slipyj e la sua Ucraina

    itMarch 08, 2022
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    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=6921

    IL CARDINALE JOSYF SLIPYJ E LA SUA UCRAINA di Roberto de Mattei
    Vi sono uomini che incarnano le virtù e i valori più profondi di un popolo. Tale fu il cardinale Josyf Slipyj, arcivescovo maggiore di Halyč e di Leopoli degli Ucraini, di cui ricorre il 130esimo anniversario della nascita, proprio mentre la sua terra natale conosce una nuova immane tragedia.
    Nato 17 febbraio 1892 a Zazdrist, nell'Ucraina occidentale, a diciannove anni Josef Slipyj entrò nel Seminario di Leopoli, dove fu ordinato sacerdote il 30 settembre 1917 e poi inviato a Roma per completare i suoi studi presso l'Istituto Orientale e l'Università Gregoriana. Nel 1925 venne nominato Rettore del seminario di Leopoli e nel 1929 dell'Accademia teologica della stessa città. L'Ucraina intanto era caduta sotto il giogo sovietico e Stalin, tra il 1932 e il 1933, requisì tutta la produzione agricola per imporre la collettivizzazione forzata del paese attraverso la carestia, conosciuta come Holodomor [il miglior film che parla dell'Holodomor è senza dubbio Raccolto amaro del 2017; per approfondimenti e per vedere il trailer, clicca qui http://www.filmgarantiti.it/it/edizioni.php?id=80].
    Mentre si avvicinava la guerra, il metropolita greco-cattolico dell'Ucraina Andrej Szeptycki (1865-1944), che lo aveva avviato al sacerdozio, lo richiese a Pio XII come suo coadiutore con diritto di successione. Così, nel 1939, mons. Josef Slipyj venne nominato esarca dell'Ucraina orientale e alla morte del metropolita Szeptycki, il 1° novembre 1944, divenne Capo e padre della Chiesa cattolica ucraina. Era un momento terribile per il suo Paese, stretto tra la morsa dei nazisti e dei comunisti. L'11 aprile 1945 il metropolita Slipyj venne arrestato dai sovietici e condannato a otto anni di lavori forzati nei gulag, mentre veniva inscenato un Sinodo illegale che proclamava la "riunificazione" della Chiesa cattolica ucraina con il Patriarcato ortodosso di Mosca, dominato dal regime sovietico. Le chiese dei greco-cattolici, circa 3.000, vennero date agli ortodossi e quasi tutti i vescovi e i sacerdoti furono uccisi o incarcerati. Nel 1953 l'arcivescovo Slipyj subì una seconda condanna a cinque anni di Siberia e nel 1958 una terza a quattro anni di lavori forzati. Nel 1962, a settant'anni, patì la quarta condanna, consistente nella deportazione a vita nel durissimo campo di Mordovia. In tutto, l'eroico presule passò 18 anni nelle carceri e nei gulag.

    PIO XII E GIOVANNI XXIII
    Il padre gesuita Pietro Leoni (1909-1995), sopravvissuto ai lager sovietici, descrivendo gli orrori del campo di transito di Kivov, racconta che un giorno alcuni detenuti furono introdotti nella sua cella. "Sull'imbrunire mi sentii chiamare da una voce sconosciuta: un uomo anziano, con la barba, stava in piedi davanti al mio posto; mi porse la mano presentandosi: Giuseppe Slipyj. Fu allo stesso tempo una gioia e un dolore sapermi insieme al mio metropolita".
    Pio XII intervenne ripetutamente in favore degli ucraini e del loro metropolita incoraggiandoli a resistere alle persecuzioni, soprattutto con l'enciclica Orientales Omnes Ecclesias del 23 dicembre 1945. Tuttavia, nel 1958, dopo la morte di Pio XII, i rapporti tra la Russia e il Vaticano iniziarono a mutare. Quando Giovanni XXIII annunciò il Concilio Vaticano II, volle che ad esso partecipassero i rappresentanti del Patriarcato di Mosca. Le autorità del Cremlino imposero come condizione il silenzio del Concilio sul comunismo. Un accordo segreto fu siglato, nell'agosto del 1962, nella cittadina francese di Metz tra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il vescovo ortodosso Nikodim da parte russa. La grande assemblea convocata per discutere sui problemi del proprio tempo avrebbe taciuto sulla maggiore catastrofe politica del Novecento.
    In quegli anni i gulag comunisti pullulavano di prigionieri per motivi religiosi, specialmente della Chiesa cattolica ucraina. Sarebbe stato uno scandalo se nell'aula del Concilio fossero stati assenti i vescovi vittime della persecuzione e presenti invece gli esponenti del Patriarcato di Mosca, che appoggiavano i carnefici. Fu svolta dunque una trattativa tra la Santa Sede e il Cremlino, per permettere al metropolita Slipyj di partecipare al Concilio. Il capo della Chiesa ucraina non voleva abbandonare il suo paese, ma ubbidì al Papa e prima di lasciare Mosca consacrò clandestinamente vescovo il sacerdote redentorista ucraino Wasyl Welyckowskyj.
    Giunse a Roma il 9 febbraio 1963, ma non tacque. L'11 ottobre 1963 Slipyj intervenne in Concilio parlando della testimonianza di sangue della Chiesa ucraina e proponendo di elevare la sede di Kiev-Halyč al rango patriarcale. Egli ricorda di aver rivolto questa richiesta numerose volte a Paolo VI ma di avere sempre ricevuto un diniego per ragioni politiche. Il riconoscimento del Patriarcato ucraino avrebbe infatti ostacolato l'Ostpolitik e il dialogo ecumenico con la chiesa ortodossa di Mosca. Però, il 25 gennaio 1965 fu creato cardinale da papa Paolo VI, che elevò la Chiesa greco-cattolica ucraina al rango di Arcivescovato maggiore di Leopoli degli Ucraini.

    IL FUTURO DELLA CHIESA UCRAINA
    Fra il 1968 e il 1976, malgrado l'età avanzata, il cardinale Slipyj intraprese lunghi e faticosi viaggi presso le comunità della diaspora ucraina nelle Americhe, in Australia e in Europa, continuando a svolgere il ruolo di Pastore del suo popolo. Nel 1976 lanciò un appello alle Nazione Unite in favore delle vittime del comunismo e nel 1977, in un drammatico intervento presso il Tribunale Sakharov, denunciò ancora una volta la persecuzione religiosa in Ucraina. Il mondo guardava a lui e al cardinale József Mindszenty (1892-1975) come a due grandi testimoni della fede cattolica nel Novecento.
    Per assicurare il futuro della Chiesa ucraina, il cardinale Slipyj non arretrò di fronte a gesti estremi. Peter Kwasniewski ha recentemente ricordato come il 2 aprile 1977 egli ordinò clandestinamente tre vescovi, senza l'autorizzazione di Paolo VI, incorrendo automaticamente nelle censure canoniche previste dal can. 953 del Codice allora vigente. Però, a differenza di quanto accadrà per mons. Marcel Lefebvre, scomunicato nel 1986 per la stessa infrazione della legge canonica, nessuna misura scattò ipso facto, nei confronti del cardinale Slipyj. Uno dei vescovi da lui ordinati era mons. Lubomyr Husar (1933-2017), che Giovanni Paolo II nominò, dopo Slipyj, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica e cardinale. A lui successe come primate Svjatoslav Ševčuk, che si trova in questo momento sotto le bombe nella città assediata di Kiev. Nel 2004 la sede dell'arcivescovato maggiore è stata trasferita a Kiev e ha mutato il proprio nome in quello attuale di Kiev-Halyč.
    Il cardinale Josef Slipyj morì in esilio a Roma a novantadue anni il 7 settembre 1984 ed è ora sepolto a Leopoli, nella cripta della cattedrale di San Giorgio, accanto al metropolita Andrej Szeptycki. Giovanni Paolo II lo definì «uomo di fede invitta, pastore di fermo coraggio, testimone di fedeltà eroica, eminente personalità della Chiesa» (L'Osservatore Romano, 19 ottobre 1984).
    Mentre l'identità religiosa e politica della sua terra è ancora una volta brutalmente calpestata, la memoria dell'eroica resistenza del cardinale Josyf Slipyj ci aiuta a confidare nel futuro dell'Ucraina. Kiev fu il luogo della conversione del popolo russo alla Chiesa cattolica, e da Kiev, non da Mosca, è destinata a partire la seconda grande conversione della Russia annunciata dalla Madonna a Fatima. Del messaggio di Fatima il cardinale Slipyj fu un grande zelatore. Nel 1980 egli presentò a Giovanni Paolo II due milioni di firme raccolte dall'Armata Azzurra, insistendo in un lungo colloquio con il Papa sulla necessità di consacrare la Russia al Cuore Immacolato di Maria. Questa consacrazione non è ancora avvenuta secondo le modalità richieste dalla Beatissima Vergine, alla quale il cardinale Slipyj così si rivolse nel suo testamento: «Seduto sulla slitta e facendomi strada verso l'eternità... recito una preghiera alla nostra protettrice e Regina del Cielo, la sempre Vergine Madre di Dio. Prendi la nostra Chiesa ucraina e il nostro popolo ucraino sotto la tua efficace protezione!». Facendo nostre le sue parole in questo momento tragico della storia del mondo non possiamo che proclamare a voce alta: "Onore al cardinale Slipyj e al suo popolo martire".

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    La disastrosa situazione del Brasile sotto il comunista Lula

    La disastrosa situazione del Brasile sotto il comunista Lula
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7716

    LA DISASTROSA SITUAZIONE DEL BRASILE SOTTO IL COMUNISTA LULA di Roberto Bertogna
    "La destra è viva, anzi è la maggiore forza politica oggi in Brasile. Lula non sarebbe mai stato capace di organizzare una simile manifestazione".
    Ecco quanto commentava un noto opinionista di sinistra sulla gigantesca manifestazione contro il socialismo e a favore dell'ex presidente Bolsonaro, tenutasi domenica scorsa a San Paolo del Brasile. Il pubblico, calcolato dal Ministero dell'interno in oltre ottocentomila persone, riempiva da un estremo all'altro l'Avenida Paulista, una delle principali vie del capoluogo.
    Dal 2013, quando sono iniziate le grandi manifestazioni di piazza contro la sinistra, il Brasile ha assistito a un risveglio dell'opinione pubblica, con la formazione di un pubblico sempre più consistente e più radicato nelle idee conservatrici. Questo blocco comprende anticomunisti, cattolici di destra, evangelici di varie confessioni, liberali classici e centristi di varie sfumature. Dopo anni di sonnolenza, il Brasile autentico si è risvegliato.
    Incapace di contenere in modo democratico questa sana reazione, la sinistra ha buttato nella mischia le sue truppe d'assalto: la stampa e il Potere giudiziario. Ha quindi iniziato una tremenda campagna di manipolazione e intossicazione dell'opinione pubblica. Non contava, però, con le nuove tecnologie. Per contrastare la propaganda del regime, è sorta una fitta rete di canali, pagine, blog, pubblicazioni online, ecc. di centro-destra, che è riuscita egregiamente a bypassare la gioiosa macchina da guerra mediatica della sinistra. È comune, per esempio, per un blogger di centro-destra avere 2-3 milioni di follower.
    Il contrattacco del Potere giudiziario, invece, si è dimostrato molto più efficace.
    Durante il mandato del presidente Bolsonaro (2019-2022), il Supremo Tribunal Federal (Corte Suprema) è intervenuto a gamba tesa in più di 120 occasioni, calpestando le funzioni organiche dell'Esecutivo. Molti collaboratori di Bolsonaro sono finiti sotto inchiesta. Basta fare un discorso anticomunista in Parlamento per beccarsi un'inchiesta giudiziaria, che spesso e volentieri finisce con la pena di carcere, in barba all'immunità parlamentare. Sì, cari amici, in Brasile oggi ci sono prigionieri politici, come in Cuba. Non pochi esponenti del centro-destra hanno dovuto fuggire all'estero, mentre altri - tra cui lo stesso Bolsonaro - hanno avuto il passaporto confiscato.
    I GIUDICI DI SINISTRA
    Il parti pris delle toghe rosse a favore di Luiz Inácio "Lula" da Silva, leader del Partito dei Lavoratori, di matrice marxista, arriva al limite del surreale. Nonostante una condanna penale, passata in giudicato in tre diverse istanze fino alla Corte d'Appello, egli è stato scarcerato e dichiarato vincitore delle elezioni generali del 2022. Come mai? Semplice: non per l'innocenza dell'imputato, ma perché un Ministro della Corte Suprema (sì, uno!) ha "sospeso" la condanna per "incompetenza di foro" (sic). Lascio ai signori avvocati la qualifica di un tale atto…
    L'auge è arrivato quando, per ordine del magistrato Alexandre de Moraes - dichiaratamente comunista - si è proceduto all'invasione, e conseguente confisco delle apparecchiature, di molti organi di comunicazione legati al centro-destra. Più di un giornalista è finito in galera. La maggiore radio conservatrice del Paese, la Jovem Pam, è stata costretta a cambiare linea editoriale, pena la chiusura. Un numero imprecisato di blogger e youtuber si è rifugiato negli Stati Uniti. Per impedire la diffusione online di idee contrarie al socialismo, de Moraes è giunto all'estremo di proibire in Brasile diverse piattaforme digitali.
    Mentre il centro-destra è così bastonato, i rappresentanti della sinistra hanno la totale protezione del Potere giudiziario. Un caso clamoroso è quello di José Dirceu, militante del PT ed ex ministro di Lula. Condannato in appello a trent'anni di carcere, è stato messo in libertà dal Supremo Tribunal Federal.
    Era naturale che, di fronte a questa palese ingerenza nella vita democratica delle toghe rosse, si creasse un clima di grande insoddisfazione popolare.
    Per protestare contro il clima di persecuzione giudiziaria, Bolsonaro convocò una manifestazione pubblica, che si è svolta domenica scorsa nel centro di San Paolo. Mentre la Polizia Federale parlava di quasi ottocentomila persone, uno studio dell'Università di San Paolo calcolava attorno a 750mila. Il pubblico gridava slogan contro il socialismo e il comunismo, a favore della proprietà privata, di biasimo all'ideologia gender, alla cultura woke e all'aborto.
    UNA DELLE PIÙ GRANDI MANIFESTAZIONI NELLA STORIA DEL BRASILE
    Nonostante sia stata una delle più grandi manifestazioni nella storia del Brasile, la stampa italiana quasi non ne ha parlato. Il Corriere della Sera l'ha liquidata con un trafiletto.
    Si fa largo l'opinione secondo cui la manifestazione di domenica scorsa segna uno spartiacque nella storia del Paese. Commenta il noto opinionista Breno Altman, membro dell'ala più a sinistra del PT: "Mi duole dirlo, ma la manifestazione è stata gigantesca, scientificamente. Bolsonaro attirò tre volte più persone di Lula, quando questi celebrò la sua vittoria in quello stesso posto due anni fa. Non possiamo nasconderci. Con un dettaglio: mentre Lula aveva convocato il popolo della sinistra per celebrare, Bolsonaro lo convocò per lottare. È diverso. È stata una gigantesca manifestazione di forza dell'estrema destra".
    Prosegue il portavoce del PT: "La grande domanda è: la sinistra è in grado di rispondere a questa sfida? La sinistra darà una sterzata, oppure continuerà con la stessa tattica di reazione al neo-fascismo, cioè appaltando l'opposizione al Potere giudiziario? Non lo so. Non credo che, da sola, questa manifestazione cambi la situazione politica di Bolsonaro. Ma il fatto è che non possiamo non tenerne conto. Si è trattato della più grande manifestazione politica degli ultimi anni. Non c'è niente di paragonabile nella storia recente del Brasile. Bisogna ammetterlo: la sinistra, il PT, i sindacati non sono in condizione di dare una risposta all'altezza".
    Toccando il nodo della questione, Altman si domanda: "La sinistra continuerà a usare nel combattimento contro il neo-fascismo il Supremo Tribunal Federal? Oppure assumerà la lotta in prima persona? Secondo me, se la sinistra non assume questa lotta, ci sarà una trasferta di voti verso l'estrema destra. Una cosa è certa: io non conosco nella storia una coalizione politica che riesca a mantenersi nel potere se perde la piazza".
    Chiediamo a Nostra Signora Aparecida, Patrona del Brasile, che non permetta che la grande nazione brasiliana soccomba nelle grinfie dei suoi nemici giurati.
    Nota di BastaBugie: Luca Volontè nell'articolo seguente dal titolo "Le mani di Zuckerberg sul voto europeo: Meta censurerà la destra" parla di Meta, l'azienda proprietaria di Facebook e Instagram, che sta preparando una rete di controllori (di sinistra) che modereranno i contenuti degli europei per le elezioni. La censura sarà spietata.
    Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 29 febbraio 2024:
    Meta, la società guidata da Mark Zuckerberg che governa Facebook, Instagram, WhatsApp e Threads, il social media rivale di X (ex Twitter), sta predisponendo la rete di controllori che modereranno i contenuti degli utenti europei, in vista delle prossime elezioni di giugno che, come descritto su La Bussola già nei giorni scorsi, stanno trasformandosi nel più imponente tentativo di influenzare l'esito della campagna elettorale, oggi favorevole ai partiti di centro destra. Cosa aspettano i governi conservatori degli Stati dell'Unione europea ad impedire la manipolazione e censura elettorale in atto?
    Un dettagliato articolo pubblicato sul quotidiano on-line The European Conservative dei giorni scorsi rivelato la rete di collaboratori di Meta, dopo che il capo degli affari europei, Marco Pancini, ha annunciato come il gigante dei social si stia preparando già da un anno per le elezioni europee. Un investimento di «20 miliardi e 15mila revisori, sui 40mila totali, che si dedicano specificatamente ad esaminare i contenuti su Facebook, Instagram e Threads in più di 70 lingue, comprese tutte le 24 lingue ufficiali dell'Ue». I censori vigileranno secondo tre direttrici principali: lottare contro la disinformazione; limitare ed eliminare le operazioni di influenza; contrastare i «rischi legati all'abuso» delle tecnologie dell'Intelligenza Artificiale. Nella stessa si scopre che i post che trattano delle elezioni, ma non violano queste norme, saranno revisionati e valutati da una rete di 29 organizzazioni e teams di partner "indipendenti" in tutta l'Ue, per tutte le lingue e nazioni europee.
    I criteri di valutazione forniti da Meta indicheranno la pericolosità e dunque la censura di post o messaggi saranno indicati da Meta, attraverso strumenti di «rilevamento delle parole chiave», che aiuterÃ

    La morte di Bernardo Caprotti, protagonista della resistenza delll'Esselunga contro le coop rosse

    La morte di Bernardo Caprotti, protagonista della resistenza delll'Esselunga contro le coop rosse
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=4410

    LA MORTE DI BERNARDO CAPROTTI PROTAGONISTA DELLA RESISTENZA DELL'ESSELUNGA CONTRO LE COOP ROSSE di Renato Farina

    La morte di Bernardo Caprotti è accaduta come tutti vorremmo capitasse a noi stessi. A tarda età, ma mentre si vive. Al punto che a Boris pare di avere interrotto il suo discorso con lui un attimo prima. Sui giornali ci era finito ancora pochi giorni fa da protagonista, uno che tiene la frusta sul cavallo, non per colpirlo, ma per far vedere chi comanda, indicandogli una strada. C'è qualcosa in lui di molto italiano, e qualcos'altro di diversissimo dai costumi italici, e di molto russo. Mi accorgo di aver usato l'indicativo presente, perché mi sembra impossibile si possa sotterrare uno così.
    Caprotti è stato l'uomo che ha inventato il supermercato in Italia. In viale Regina Giovanna trasformò una vecchia autorimessa in un grande negozio, con gli scaffali, dove i clienti potevano scegliersi le merci e posarle in un carrello. Era il 27 novembre 1957. Nasceva così Esselunga, un nome derivato dall'insegna Supermarket con la consonante sibilante che si estendeva sul resto della scritta. I bottegai - ne sono consapevole - non l'hanno amato, ma il passaggio a questa nuova dimensione, alla grande distribuzione, era inevitabile per lo sviluppo delle tecnologie e per l'impulso americano. Alcuni negozi di vicinato hanno saputo resistere, tenere accese le vetrine, altri si sono arresi: in fondo l'innovazione punisce sempre chi non sa estrarre talenti dalla tradizione e si siede su di essa, invece che inventare, consorziarsi con amici e concorrenti, provare il nuovo sul suolo antico ma concimato dal proprio sudore e da quello delle nuove generazioni.
    Caprotti è stato italiano in due sensi. La caparbietà dell'inventiva, il reggere alla concorrenza straniera. In un capitalismo italiano bravo solo a farsi sovvenzionare dallo Stato e a trovare accordi nei salotti buoni per non rischiare nulla, Caprotti ha avuto il coraggio di giocarsela. Ha puntato su se stesso e i suoi collaboratori (li chiamava così, non impiegati o dipendenti, e sono più di 22 mila), e cioè sul lavoro, invece che sulla finanza. Non ha venduto per godere plusvalenze miliardarie dalla vendita a francesi o americani del suo business. Di certo non avrebbe mai venduto alla Coop. Non sopportava il comunismo in teoria, ma soprattutto l'affarismo dei comunisti nella pratica. Nove anni fa scrisse Falce e carrello, dove dimostrò i legami ammorbanti tra le amministrazioni delle Regioni rosse (Emilia-Romagna, Toscana in primis) e la proliferazione di supermercati del medesimo colore. A lui, al suo modo di intendere l'imprenditoria, non si lasciava spazio. La sua denuncia fece sapere all'Italia molte cose. Le sanno benissimo anche gli altri imprenditori delle medesime regioni. Ma per quieto vivere e per realismo non hanno potuto permettersi lo stesso coraggio. Negli ultimi tempi, sentendo che l'età gli imponeva delle decisioni, aveva stabilito di vendere tutto. In mani sicure, capaci di non sprecare il suo tesoro, frammentarlo, tradendo il suo spirito. In Italia non vedeva nessuno. Detestava l'ingordigia francese. Pensava piuttosto agli americani. [...]
    Non ha fatto a tempo a vendere, Caprotti. Per il bene di questo nostro paese e della sua discendenza, ci auguriamo che le liti ereditarie non portino a tagliare in pezzi questo diamante unico, che è così italiano. Riposi in pace, cavalier Bernardo. Anzi, venga giù a dare una mano.

    L'asfissiante propaganda del governo nelle chiese in Cina

    L'asfissiante propaganda del governo nelle chiese in Cina
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7514

    L'ASFISSIANTE PROPAGANDA DEL GOVERNO NELLE CHIESE IN CINA di Manuela Antonacci
    Dal 1° settembre, a Pechino, entreranno in vigore 76 nuove Misure finalizzate a rafforzare il controllo del governo cinese sulle attività religiose. Si tratta di un ulteriore giro di vite che ha lo scopo reprimere il "sottobosco" delle organizzazioni religiose riluttanti a farsi risucchiare dal "mercato rosso" delle religioni ufficiali in Cina, ovvero le cinque associazioni permesse dal Partito Comunista Cinese, il quale ne nomina pure i responsabili: l'associazione buddista, l'associazione taoista, l'associazione musulmana, l'associazione protestante (la Chiesa delle Tre Autonomie) e l'associazione cattolica (l'Associazione patriottica cattolica cinese)
    Di più, le nuove misure convertiranno i luoghi di culto in veri e propri rami del sistema di propaganda del Partito Comunista Cinese, come riporta Bitter Winter. Infatti, queste Disposizioni sostituiscono quelle del 2005 e confermano che i luoghi in cui si svolgono le attività religiose (monasteri, templi, moschee e chiese) dovranno trasmettere attivamente la propaganda del Partito Comunista Cinese, altrimenti rischieranno la liquidazione. Sono state stabilite disposizioni più severe per includere contenuti di propaganda addirittura nei sermoni e per creare gruppi di studio che si formino sui documenti del Partito Comunista Cinese in tutti i luoghi di culto. Viene inoltre sottolineato che «è vietato costruire grandi statue religiose all'aperto al di fuori di templi e chiese» e il divieto vale anche per privati cittadini o donatori.
    Di fatto tutto questo si configura come l'ennesimo tentativo di uniformare il credo dei cittadini alla propaganda di Stato, anche se nell' Articolo 1 si ha il coraggio di affermare «Queste misure sono formulate [...] per proteggere le normali attività religiose e salvaguardare i diritti e gli interessi legittimi dei luoghi di culto e dei cittadini credenti». Lo spirito liberticida che pervade queste norme emerge bene dall'Articolo 3, in cui si legge «I luoghi in cui si svolgono le attività religiose devono sostenere la leadership del Partito Comunista Cinese e del sistema socialista, attuare completamente l'ideologia del socialismo di Xi Jinping con caratteristiche cinesi per la nuova era, rispettare la Costituzione, le leggi, le norme e i regolamenti e le disposizioni pertinenti la gestione degli affari religiosi, praticare i valori fondamentali del socialismo, aderire alla direzione della sinicizzazione delle religioni cinesi, aderire al principio di indipendenza, autonomia e autosufficienza e salvaguardare l'unità del paese, l'unità nazionale, l'armonia religiosa e la stabilità sociale».
    Ovviamente anche gli insegnanti di religione dovranno adeguarsi all'ideologia del Partito: nell' Articolo 6 si legge che nei luoghi di culto «vi è un insegnante di religione che deve presiedere alle attività religiose in conformità con le norme e i regolamenti del gruppo religioso nazionale». Dopo aver stabilito a chiare lettere, nelle prime disposizioni, il totale subordinamento delle attività religiose al regime di Pechino, nelle norme successive, vengono fornite una serie di indicazioni burocratiche minuziose riguardo i luoghi di culto: all' Articolo 66 si specifica, ad esempio, che «il Dipartimento degli affari religiosi deve supervisionare e ispezionare i luoghi in cui si volgono le attività religiose in termini di conformità alle leggi».
    Insomma, l'ennesimo sistema creato ad hoc che costringa le comunità religiose a far passare tutte le loro iniziative al vaglio del regime di Pechino. Un sistema di cui il Dipartimento per gli affari religiosi rappresenta la longa manus con il suo controllo continuo, fatto passare per "assistenza e supervisione". In soldoni, non c'è scampo per chi non si adegui al regime. Anzi questo forse rappresenta il vero e proprio colpo di grazia alla libertà religiosa in Cina.
    Nota di BastaBugie: Riccardo Cascioli nell'articolo seguente dal titolo "Nuovo vescovo a Shanghai, in Cina decide solo il Partito comunista" parla della nomina a vescovo di Shanghai che è stata presa senza il consenso della Santa Sede, in violazione dell'Accordo del 2018.
    Ecco l'articolo completo pubblicato su La Nuova Bussola Quotidiana il 6 aprile 2023:
    La Cina decide e la Santa Sede abbozza. È ormai questa la trama dei rapporti tra Pechino e Vaticano da quando nel 2018 è stato firmato l’accordo segreto sulla nomina dei vescovi. E l’ennesima conferma è arrivata in questi giorni con la nomina del nuovo vescovo di Shanghai, monsignor Giuseppe Shen Bin, decisa dal regime attraverso la voce del Consiglio dei vescovi cinesi (la Conferenza episcopale non riconosciuta dalla Santa Sede), di cui lo stesso Shen Bin è presidente. L’ingresso in diocesi è avvenuto il 4 aprile e i preti erano stati invitati alla celebrazione senza rivelare il nome del prescelto, mentre la Santa Sede - come afferma un comunicato vaticano - era stata informata della decisione solo pochi giorni prima e ha saputo dell’insediamento solo a cose fatte e dai media internazionali.
    Shanghai è una sede episcopale importantissima per la Chiesa cinese, qui c’era la comunità cattolica più vivace quando i comunisti arrivarono al potere alla fine degli anni ’40 e qui c’è stata immediatamente la repressione più dura. Arcivescovo titolare di Shanghai era allora il cardinale Ignazio Kung Pin-mei, figura eccezionale del cattolicesimo, che fu arrestato nel 1955 e rilasciato solo dopo 30 anni di carcere per poi essere esiliato negli Stati Uniti, dove morì nel 2000. Fu creato cardinale “in pectore” da Giovanni Paolo II nel suo primo Concistoro nel 1979 e ricevette la porpora nel 1991.
    Nel territorio della diocesi c’è anche il santuario nazionale mariano di Nostra Signora di Sheshan, a cui Benedetto XVI chiese di rivolgersi nella Giornata di preghiera per la Chiesa in Cina istituita nel 2007 e ricorre ogni anno il 24 maggio.
    La sede di Shanghai era vacante dal 2013, quando morì monsignor Aloysius Jin Luxian, vescovo patriottico che solo nel 2005 chiese e ottenne di tornare nella piena comunione con il Papa. L’anno prima, nel 2012, la Santa Sede - con il consenso di Pechino, aveva nominato come vescovo ausiliare monsignor Taddeo Ma Doqin, ma subito dopo l’ordinazione fu posto agli arresti domiciliari per aver manifestato l’intenzione di dimettersi dall’Associazione Patriottica della Chiesa cattolica, l’organismo con cui il regime comunista guida le attività della Chiesa. Da allora monsignor Ma Doqin è confinato a Sheshan, anche se poi è tornato sui suoi passi riguardo al rapporto con l’Associazione patriottica. In ogni caso i fedeli di Shanghai si aspettavano che fosse lui a essere nominato arcivescovo della diocesi.
    Ma l’elemento più importante è certamente il fatto che il regime cinese abbia preso la decisione senza consultare la Santa Sede, una chiara intenzione di riaffermare il proprio potere che non può essere limitato da nessuno, men che meno da quella che viene percepita come una potenza straniera. Era già successo pochi mesi fa, novembre 2022, poche settimane dopo il rinnovo dell’accordo sino-vaticano, quando monsignor Giovanni Peng Weizhao, dal 2014 vescovo di Yujiang, è stato nominato dal regime cinese come vescovo ausiliare della diocesi dello Jiangxi, un raggruppamento di cinque diocesi non riconosciuto dalla Santa Sede.
    Allora dal Vaticano arrivò una nota di protesta, a cui però non c’è stato seguito. In questo caso invece la Sala Stampa della Santa Sede ha detto che non ci sono dichiarazioni riguardo alla valutazione dell’accaduto. È però facile prevedere che prevarrà ancora una volta la volontà di mantenere l’accordo inalterato non alzando i toni e accettando il fatto compiuto.
    Lo dimostra l’immediato intervento dei “pompieri” - intellettuali, giornalisti e movimenti grandi sponsor dell’accordo con il regime cinese - sempre pronti a giustificare Pechino. Ne è un esempio l’analisi di Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore ed esponente di spicco della Comunità di Sant’Egidio, pubblicata da Avvenire. Pur (delicatamente) rimproverando a Pechino l’incapacità di cogliere la «natura universale propria della Chiesa», tende a minimizzare la gravità della decisione di Pechino notando anzitutto che nel caso di Shen Bin si tratta di uno spostamento da una diocesi all’altra e non di una nuova ordinazione. Monsignor Shen Bin era infatti vescovo dal 2010 - nominato dalla Santa Sede con il consenso di Pechino - di Haimen (Jiangsu): «Nulla a che vedere, dunque, con le tante ordinazioni illegittime che ci sono state in Cina dal 1958 al 2018».
    Il che è vero, ma non si può far finta di non sapere che anche la destinazione è parte dell’ordinazione, quindi anche gli spostamenti da una diocesi all’altra sono prerogativa del Papa e quindi devono essere necessaria

    Stalin, la tentazione di estirpare il male con la violenza

    Stalin, la tentazione di estirpare il male con la violenza
    VIDEO: The soviet story ➜ https://rumble.com/vwywp3-origini-comuni-di-comunismo-e-nazismo.html

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ https://www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7415

    STALIN, LA TENTAZIONE DI ESTIRPARE IL MALE CON LA VIOLENZA di Vincenzo Sansonetti
    Mosca, 1° marzo 1953, interno del Cremlino, di tarda mattina. Due guardie sono davanti all'ufficio di Iosif Vissarionovič Dzugasvili, 74 anni, un bolscevico di umili origini nativo della Georgia, che si è dato il nome di battaglia di Stalin ("l'uomo d'acciaio"). Da oltre un trentennio è il segretario generale del Partito comunista, in sostanza l'indiscusso capo dello Stato sovietico nato dalla rivoluzione del 1917. "Degno continuatore dell'opera di Lenin" (come lui stesso si definiva), Stalin sta preparando l'ordine di deportazione nella Manciuria orientale, più precisamente nel territorio del Birobidian, di tutti gli ebrei sottoposti al suo potere; non solo quelli che vivono nell'Unione Sovietica (circa tre milioni), ma anche quelli degli Stati satelliti dell'Europa orientale (particolarmente numerosi in Romania, dove i nazisti ne avevano deportati solo una minima parte).
    Il motivo? Dirà ai suoi più stretti collaboratori, stupiti e increduli per questa scelta, dal momento che proprio gli ebrei occupavano molti posti di responsabilità nel partito: "Tutti gli ebrei russi non guardano forse alla Palestina, ormai? Chi di loro pensa più alla costruzione del comunismo? Non ci offende abbastanza questo? O forse dovremmo attendere addirittura che i nostri ebrei diventino fra noi la quinta colonna dello Stato di Israele?".
    Le sue parole non si discutono. "Io non dubito, né dubiterò", cantano in coro le guardie. E aggiungono: "Chi può ormai più dubitare che il comunismo è la dottrina che sanerà i mali del mondo?".
    Così comincia la tragedia Processo e morte di Stalin, opera meno nota ma fondamentale dello scrittore e saggista brianzolo Eugenio Corti (1921-2014), autore del long seller Il Cavallo rosso (più di trenta edizioni in quarant'anni). Racconta gli ultimi giorni di vita del dittatore sovietico, immaginando che sia stato vittima di una congiura ordita dai suoi ex "fedelissimi: Beria, Bulganin, Caganovic, Crusciov, Malencov, Micoian, Molotov e Voroscilov, che effettivamente si spartiranno il potere alla sua morte. Lo sottopongono a processo e con l'aiuto di medici compiacenti lo faranno morire procurandogli un'emorragia cerebrale, che fu effettivamente la causa del suo decesso. Ma Stalin si difende, affermando che i suoi seguaci si comporteranno in maniera spietata esattamente come lui, se vogliono davvero difendere il comunismo. E infatti il primo ad essere eliminato, pochi mesi dopo, sarà Beria, il feroce capo della polizia segreta.
    UN CAPOLAVORO (PESANTEMENTE STRONCATO DALLA STAMPA DI SINISTRA)
    La stesura della tragedia risale agli anni 1960-1961 e fu subito ritenuta un capolavoro da Mario Apollonio, il maggior critico e storico del teatro del dopoguerra. Venne rappresentata a Roma il 3 aprile 1962 al Teatro della Cometa - proprio su suggerimento e con il patrocinio di Apollonio - dalla Compagnia Stabile di Diego Fabbri, con la regia di Orazio Costa, ma "mutilata" e ridotta a semplice lettura scenica, quasi per ridurne e affievolirne la potenza drammatica ed evocativa, in quanto forte denuncia dei crimini staliniani (milioni e milioni di vittime, "nemici del popolo" ed "elementi ostili ed estranei alla società", come i kulaki, letteralmente fatti morire di fame). L'opera rimase in cartellone per quasi due settimane, con un buon successo di pubblico e giudizi favorevoli di almeno una parte della critica, ma fu pesantemente stroncata dalla stampa marxista o fiancheggiatrice del marxismo. Malgrado la destalinizzazione, non si poteva parlar male di Stalin e soprattutto del comunismo, peraltro in modo cosi chiaro ed esplicito. Ci fu quindi la censura, l'ostracismo, l'oblio, che crebbe con il passare degli anni, perché nel frattempo si era andata sempre più affermando in Italia l'egemonia marxista sul mondo della cultura in tutte le sue espressioni. La tragedia avrà fortuna solo negli ambienti della dissidenza russa e polacca.
    Quasi mezzo secolo dopo, l'opera dell'autore de Il cavallo rosso è tornata ad essere rappresentata (24, 25 e 26 giugno 2011) al Teatro Manzoni di Monza. Questa volta un' azione teatrale vera, molto efficace, non una scialba lettura scenica. Tutto esaurito e lunghi applausi al termine di ogni rappresentazione. A impersonare Stalin l'attore Franco Branciaroli, perfettamente nella parte di un uomo solo, stanco, tormentato dai fantasmi degli orribili massacri compiuti e accerchiato dai "lupi" e dai "maledetti cani" (così il dittatore chiama i suoi nemici interni, pronti a liberarsi di lui).
    STALIN HA APPLICATO CON RIGORE IL COMUNISMO
    La regia è affidata ad Andrea Maria Carabelli, che in quell'occasione commentò: "Il personaggio ha dentro di sé tutta la tragicità del Novecento. È il massimo della coerenza. Lui ha applicato con rigore il comunismo, il suoi ideale. E non importa se per fare questo è arrivato persino a distruggere i legami familiari". Per il regista "Stalin rappresenta la tentazione di ogni uomo. Perché la tentazione più grande non è tanto il male che compiamo, fosse anche fatto di milioni di morti, ma pensare che il male possa essere estirpato dall'uomo e dal mondo" con le nostre sole forze. Eliminare il male dalla società ignorando o combattendo Dio significa che "alla fine bisogna eliminare l'uomo".
    Il momento più drammatico e rivelatore della tragedia è nelle parole rivolte da Stalin alla nuora Olga Goliscéva: "La realtà siamo noi. Se la realtà storica non ci viene dietro, e quindi sbaglia, noi possiamo anche cambiare la storia". Per Branciaroli, nella raffigurazione scenica di Corti "Stalin è convinto della possibilità di cambiare il mondo attraverso il marxismo. Il sangue versato lo reputa necessario. Ma la cosa non lo diverte. Lui uccide per ideologia, perché è un comunista. Lo ammette: più ci si avvicina al socialismo, più gli oppositori aumentano, più è necessario essere implacabili".
    Ci crede fino in fondo. E dopo di lui le cose non cambieranno, non si illudano i congiurati, i "fedelissimi" uomini del Politburo venuti nella sua dacia per arrestarlo e processarlo. Si devono arrendere al lucido ragionamento del loro capo: "Potete illudervi di fare a meno della violenza solo fino a quando rimarrà negli uomini il salutare terrore per le repressioni da me esercitate, ma non oltre". Una profezia su cui riflettere soprattutto da quando, negli ultimi anni, in epoca putiniana, sono riapparsi i fiori sulla tomba di Stalin.
    Negli anni del terrore staliniano l'ideologia che stravolgeva la società e la storia era il marxismo-leninismo, con le sue propaggini in Occidente, capaci di influenzare e orientare la politica e soprattutto la cultura. Oggi - in maniera più subdola e apparentemente meno lesiva della libertà e perciò più pericolosa - impera il nichilismo ecologista, frutto estremo del liberalismo più spinto. Ma, come sempre, l'ideologia quando ingabbia la realtà non può che produrre violenza e distruggere l'umano.

    Il PD di Elly Schlein è aggressivo da far paura

    Il PD di Elly Schlein è aggressivo da far paura
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7338

    IL PD DI ELLY SCHLEIN E' AGGRESSIVO DA FAR PAURA di Paolo Piro
    La vittoria di Elly Ethel Schlein alle primarie del PD, suggerisce diverse riflessioni. Ai vertici di quello che fu il "glorioso" Partito Comunista Italiano, arriva una leader dai tratti antitetici a tutto ciò che è tradizionale. La Schlein ha tre cittadinanze, la diremmo cittadina del mondo, negazione della Patria. Si dichiara paladina degli LGBT+, negazione della natura. E' plenipotenziaria di tutti i diritti immaginabili - utero in affitto, libera cannabis, pillola abortiva Ru486 gratis, adozione da parte delle coppie gay, eutanasia, aborto - insomma l'individualismo libertario più radicale, negazione di ogni identità. Viene votata, da non tesserata, a segretaria del PD, da molti non tesserati al partito, gli uomini qualunque dei 5Stelle, negazione di ogni appartenenza. Con la Schlein, i motivi dominanti della sinistra non saranno più i diritti sociali (lavoro, welfare) ma i diritti civili, in un quadro di precarietà ed instabilità sociale ed esistenziale, dato per acquisito.
    Nel 1943 Palmiro Togliatti torna in Italia dall'URSS, con un progetto condiviso e "benedetto" da Stalin. Un piano che prevede quanto, in effetti, accadrà successivamente: la partecipazione dei comunisti al governo Badoglio, il referendum tra monarchia e repubblica etc..., ma soprattutto calibrato, come lui stesso afferma: "per cambiare gli italiani nel modo di essere e di sentire", attraverso l'affermazione dell'egemonia culturale gramsciana ed il divieto della rivoluzione armata, surrogata da una lenta, progressiva e vincente occupazione di tutti gli spazi socioculturali. È il partito radicale di massa, l'obiettivo individuato da Togliatti che con la Schlein, si compie. Il dimenticato Augusto Del Noce in "Il Suicidio della Rivoluzione", aveva visto giusto anche perché il fine del marxleninismo è l'anarchia come modello politico e umano. Togliatti aveva spiegato bene che "il marxismo non è un dogma ma una guida per l'azione politica". Una parte dei militanti del PD non capiranno questa progressione, ma non dimentichiamo quel genio di Giorgio Gaber ed il suo "Qualcuno era Comunista". I motivi per far parte di quel partito erano i più eterogenei. Una eterogeneità che non fa problema ai 5S, evanescenti come sono, ma farà qualche problema ai cattocomunisti. I pronipoti di Don Sturzo, De Gasperi, Moro, Martinazzoli, come concilieranno la radicalizzazione del partito con la loro militanza? Ci sarà ancora posto per i cattolici nel Pd? Per alcuni il problema non c'è perché hanno già completato quel trasbordo ideologico che li ha transitati dalla fede cattolica ad una fede disincarnata, privatizzata, protestantizzata, approdando ad una chiesa pneumatica, che Papa PIO XII aveva previsto e condannato negli anni cinquanta. Per altri sarà più difficile sposare il loro progressismo cattolico con il radicalismo della Schlein, anche perché la linea ambientalista ed immigrazionista, acquisirà presto un inevitabile sapore religioso e quando la politica si eleva a religione diventa totalitarismo. Il PD si batterà per reintrodurre a pieno titolo il reddito di cittadinanza, sconfiggere il "malcostume" dell'obiezione di coscienza del personale sanitario sulla 194, combattere ogni obiezione alla ovvietà del relativismo in ogni campo. I cattocomunisti, dovranno decidere se diventare definitivamente i chierici della "nuova" chiesa globalista/ambientalista. Una chiesa che giudica tutti sulla base di criteri morali leninisti dove la "moralità è ciò che serve alla distruzione della vecchia società" o di quel che ne rimane, e per l'avvento di un uomo nuovo che cambia dall'esterno verso l'interno, come e dove il potere vuole. Il sorriso delle sardine, Santori e Schlein è tutt'altro che innocente, ha il volto giacobino della "violenza per il tuo bene" e dell'imposizione del relativismo come verità assoluta. Un relativismo ambiguo, che ignorando il principio di non contraddizione, riuscirà a mettere insieme il voto per l'invio delle armi in Ucraina, con un pacifismo modello Imagine di Lennon, senza rinunciare, per amore ai 5S, alla convinzione che le armi non risolvano i conflitti. La Schlein è nata a Lugano, figlia di due professori universitari, sorella di una diplomatica in carriera e di un matematico, è agiata, poliglotta, intellettuale e cosmopolita, esponente dell'alta borghesia progressista ed incarna il prototipo dell'oltredonna di Nietzsce, potrà stare vicino agli eredi di un'altra storia? La nuova segretari* è sponsorizzata dai capicorrente del Partito Democratico, Franceschini, Zingaretti, Cuperlo, Orlando, Bersani e Bettini e, udite, udite, da Romano Prodi, ultimo elemento, questo, che fa comprendere le delicate parole che Mons. Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, le ha dedicato in un intervista sul Giornale di Sicilia. Il cattocomunista Beppe Fioroni è già fuori dal partito, ma ad una certa età... si sa... certe emozioni...! E tutti gli altri? Alla fine il cattocomunista medio, dopo decenni di militanza rivoluzionaria, è diventato evanescente nelle idee e numericamente irrilevante e trascurabile in quanto elettore. Quasi certamente finirà con il transitare l'impegno politico, dai diritti sociali ai diritti civili, dissolvendosi nel partito radicale di massa. Una parte probabilmente sarà fagocitata da Renzi, mentre la riserva indiana bolognese nella quale sono ridotti i cattodem d'èlite, continuerà a sostenere il PD, anche perché, da chi potrebbero andare? Voi li prendereste?

    Daniel Ortega, il "volto umano" del comunismo in Nicaragua

    Daniel Ortega, il "volto umano" del comunismo in Nicaragua
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7303

    DANIEL ORTEGA, IL ''VOLTO UMANO'' DEL COMUNISMO IN NICARAGUA di Mauro Faverzani
    A chi ancora credesse al volto umano dell'ideologia comunista - qua e là nel mondo tradottasi o nella dittatura del partito unico o nella tragedia di un immorale radicalismo di massa -, varrebbe la pena di dedicare, quale esempio, la situazione odierna del Nicaragua di Daniel Ortega, tornato al potere nel 2007 col partito sandinista, partito di estrema sinistra impregnato di marxismo, socialismo, antimperialismo e teologia della liberazione.
    Come noto, questo Paese dell'America centrale è formalmente una repubblica presidenziale, col ritorno di Daniel Ortega però subito trasformata in un regime e dei più oscuri. Per citare solo l'ultimo periodo di una lunga e contrastante carriera politica, lo scorso 16 dicembre il vescovo di Rockford, mons. David Malloy, ha chiesto agli Stati Uniti ed alla comunità internazionale di esercitare pressioni per ottenere il rilascio del vescovo di Matagalpa, amministratore della diocesi di Estelí e segretario per i media della Conferenza episcopale, mons. Rolando Álvarez, prelevato dalla Polizia nazionale dal suo palazzo nelle prime ore dello scorso 19 agosto e poi posto dal governo prima e dai giudici poi agli arresti domiciliari con le incredibili accuse di «cospirazione per attentare all'integrità nazionale e propagazione di notizie false attraverso le tecnologie dell'informazione e della comunicazione a danno dello Stato e della società nicaraguense», semplicemente per aver rivolto comprensibili critiche ad un esecutivo, distintosi per la politica di aggressione e intimidazione fisica scatenata contro la Chiesa cattolica, da oltre un anno perseguitata per un presunto sostegno dato ad oppositori e dissidenti.
    L'anno scorso il governo sandinista ha espulso dal Paese il nunzio apostolico Waldemar Stanislaw Sommertag e 18 suore Missionarie della Carità, ha imprigionato 7 sacerdoti e 2 collaboratori laici, chiuso 9 stazioni-radio cattoliche, ritirato 3 canali cattolici dalla programmazione televisiva in abbonamento, impedito processioni e pellegrinaggi. Profanazioni del Santissimo Sacramento e di immagini sacre, arresti ingiusti ed ingiustificati, violenze, divieto di rientro in Patria imposto ai sacerdoti all'estero sono solo alcune delle più evidenti prevaricazioni poste in essere da un regime rivoluzionario, pronto a calpestare libertà religiosa e diritti umani (quelli veri...), impedendo l'avvio di un processo di ripristino dello stato di diritto nel Paese, come evidenziato dal vescovo Malloy, che ha anche lanciato un drammatico allarme: «L'aspetto fisico deteriorato di Álvarez testimonia le condizioni particolarmente difficili degli arresti domiciliari».
    La risposta non si è fatta attendere. Lo scorso 20 dicembre Daniel Ortega, durante la cerimonia di consegna dei diplomi ai cadetti dell'Accademia di Polizia, si è scagliato a muso duro contro la Chiesa cattolica, incolpando i vescovi del bagno di sangue avvenuto nel 2018, quando migliaia di nicaraguensi scesero in piazza per protestare contro il regime sandinista. 300 dissidenti furono massacrati solo per aver chiesto un cambio di governo. Senza vergogna, Ortega ha accusato di tutto questo sacerdoti e vescovi, bollati come «farisei» e «sepolcri imbiancati», concludendo il discorso con un giudizio senza appello: «Non ho mai avuto rispetto per i vescovi».
    La data del processo al vescovo Álvarez non è stata ancora fissata. Ma le stesse accuse di «diffusione di notizie false» e «cospirazione» si sono già tradotte anche nell'arresto di altri 3 sacerdoti, 2 seminaristi, un diacono ed un laico, un fotografo cattolico per la precisione. Tra questi figura anche Padre Ramiro Reynaldo Tijerino Chávez, rettore dell'Università «Giovanni Paolo II». Tutti proclamano la propria innocenza. Probabilmente la loro "colpa" è quella d'esser considerati collaboratori del vescovo Álvarez. Le medesime accuse comunque sono state rivolte anche a don Uriel Antonio Vallejos, parroco della chiesa di Gesù della Divina Misericordia, a Sébaco, salvo solo perché in esilio. Su di lui pende un mandato d'arresto sempre pronto, sempre valido.
    Ecco, non fosse bastata l'esperienza dell'Unione Sovietica (i cui metodi sembran piacere ancora a tanti, troppi suoi nostalgici "nipotini") e non fosse sufficiente quel che oggi avviene in qualsiasi Paese a trazione comunista (Cina, Corea del Nord, Cuba e via elencando), il Nicaragua oggi, in questi stessi giorni mostra quale sia il vero volto del marxismo. In ogni epoca ed a qualsiasi latitudine.

    La Cina ammette (in ritardo) i dati sui morti di covid: è la fine del bluff

    La Cina ammette (in ritardo) i dati sui morti di covid: è la fine del bluff
    VIDEO: I migliori anni ➜ www.youtube.com/watch?v=e6b22FCDwbM&list=PLolpIV2TSebVtj34zS7A0AabuQ9cf1Uxp

    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7279

    LA CINA AMMETTE (IN RITARDO) I DATI SUI MORTI DI COVID: E' LA FINE DEL BLUFF di Stefano Magni
    La Cina ammette di aver subito quasi 60mila morti di Covid nell'ultimo mese e incassa il plauso dall'Oms: almeno una stavolta ha reso pubblico un dato reale.
    L'ultima stima è il risultato del colloquio, sabato, fra il capo della Commissione Nazionale per la Salute cinese, Ma Xiaowei e il direttore generale dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. I morti sono 59.938, il 90% sono anziani con più di 65 anni. Finora, le autorità cinesi avevano dichiarato appena 30 morti di Covid dalla fine dei lockdown. Come mai tanta differenza fra le stime precedenti e le attuali? Il modo di contare: le autorità erano autorizzate a contare come "morto per Covid" solo il paziente che non aveva altre patologie pregresse. È questo il tipo di contabilità che risulta da una nota del Centro per la Prevenzione e il Controllo cinese del 21 dicembre scorso, trapelata alla stampa. Quindi una minoranza estrema. La stessa nota contava 250 milioni di infetti nei primi venti giorni di dicembre e dà l'idea di quanto sia già diffusa la nuova ondata.
    I CONTI NON TORNANO
    Certo è che, con la contabilità cinese abbiamo sempre dovuto fare i conti. La pandemia, dal gennaio 2020 al dicembre 2022, secondo le autorità di Pechino, avrebbe provocato in tutto 5.272 morti (in Italia, per fare un paragone, sono stati 185.417). Adesso, dopo questa ammissione, si scopre che i trenta morti di dicembre e gennaio erano in realtà quasi 60mila. Quindi in un solo mese sono morte 12 volte il totale delle vittime di Covid degli ultimi due anni? C'è ovviamente qualcosa che non torna.
    La rivelazione di questi dati compromette la narrazione cinese, ma non solo quella. Infatti svela il bluff che c'era dietro alla politica di lockdown, volta ad eradicare il virus e non solo a contenerne la diffusione. Se appena finite le misure della strategia "zero Covid" la malattia riprende a circolare e fa decine di migliaia di vittime, vuol dire che non c'è alcuna possibilità di eradicare il virus tramite le chiusure. Neppure se imposte a tutti con le maniere brutali delle autorità della Cina, con metodi che solo un regime totalitario può permettersi. Quando Pechino ha annunciato la fine improvvisa delle chiusure lo ha fatto affermando che il virus fosse sconfitto. E invece non lo era. Motivo in più per pensare che il cambio di rotta sia avvenuto sia per motivi politici (la paura che le proteste dilagassero), sia per motivi economici (la crisi dovuta alle chiusure e i costi della politica zero Covid stavano diventando insostenibili). E questo in un Paese che già dichiarava definitivamente sconfitto il virus l'8 aprile 2020 e che ha puntato il dito contro virus "da importazione" dopo ogni caso registrato successivamente a quella data.
    TUTTO SBAGLIATO, TUTTO DA RIFARE
    Ghebreyesus si è complimentato con le autorità cinesi per aver accettato di condividere per la prima volta dei dati reali. Ora le prega di essere più trasparenti anche sull'origine della pandemia. Anche questa domanda svela un bluff a cui ha partecipato la stessa Oms di Ghebreyesus per almeno un anno. Prima l'Organizzazione mondiale ha aderito ai tempi dettati da Pechino, dando l'allarme solo quando il regime cinese ha deciso di proclamare l'emergenza, mentre Taiwan, soprattutto, era in allerta dal mese precedente (il 31 dicembre 2019, contro il 23 gennaio 2020, data ufficiale di inizio emergenza). Questo ritardo è risultato fatale per la diffusione del virus nel mondo. Poi, sulla causa iniziale, l'Oms non ha mai mostrato alcun dubbio sull'origine naturale del virus, come Pechino voleva. Si veniva censurati anche sui social network se si provava a parlare di una possibile origine in laboratorio. Dopo la prima ispezione dell'Oms a Wuhan del febbraio 2021, però, è diventata un'ipotesi legittima e sempre più diffusa. La Cina si è finora trincerata dietro una barriera impenetrabile di silenzio e negazione. Ma se ha mentito così clamorosamente sul numero dei morti, c'è da fidarsi quando parla della storia della pandemia?
    Di fronte alle cifre che arrivano dalla Cina, ora, possiamo avere differenti reazioni, in Europa. Una reazione sbagliata è il panico: 60mila morti in un mese è un numero che incute timore, ma è poco se rapportata ad una popolazione di un miliardo e mezzo di cinesi ormai liberi di muoversi ed assembrarsi. In compenso, reintrodurre restrizioni in Europa sarebbe un errore, soprattutto considerando che proprio la Cina dimostra come le restrizioni (le più dure e dolorose del mondo) servano, al massimo, a rimandare il contagio e non a eradicare il virus. Una migliore reazione, al contrario, è quella di una sana diffidenza nei confronti delle informazioni che ci giungono da un regime totalitario comunista dove, come abbiamo appreso ancora una volta, la statistica è usata come un'arma politica. Se solo pensiamo che la risposta al coronavirus, nel 2020, è stata elaborata sulla base delle informazioni ufficiali di Pechino, possiamo ben realizzare in che mani siamo (stati).

    Proclamare santo il vescovo Camara significa canonizzare il comunismo

    Proclamare santo il vescovo Camara significa canonizzare il comunismo
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7254

    PROCLAMARE SANTO IL VESCOVO CAMARA SIGNIFICA CANONIZZARE IL COMUNISMO
    Il vescovo brasiliano Helder Camara potrebbe essere dichiarato venerabile: fu protagonista della teologia della liberazione, benevolo verso Urss e Cina, nella sua diocesi si pianificava la lotta armata rivoluzionaria
    di Stefano Chiappalone
    Un deciso passo in avanti per la causa di beatificazione di mons. Helder Camara (1909-1999), il "vescovo rosso" brasiliano che a breve potrebbe essere dichiarato venerabile. Lo ha reso noto l'arcivescovo mons. Fernando Saburido, suo successore nell'arcidiocesi di Olinda e Recife, retta da Camara tra il 1964 e il 1985. Un prelato sui generis, schierato con l'ala più progressista dei padri conciliari e poi, a concilio concluso, desideroso di un Vaticano III che superasse il secondo (naturalmente a sinistra). Protagonista della teologia della liberazione, sul piano politico, si mostrò decisamente benevolo verso le dittature comuniste, dall'Unione Sovietica, alla Cina, a Cuba, sempre all'insegna della "difesa dei poveri" con cui è stato propagandisticamente identificato in vita e in morte. Qualora un giorno mons. Camara salisse agli onori degli altari, costituirebbe un modello a dir poco controverso. A sostenerlo, auspicando che la causa venga sospesa, è Tradizione Famiglia Proprietà (TFP), rete di associazioni nata proprio in Brasile dall'opera di Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), leader cattolico e impegnato nella "battaglia culturale" su posizioni opposte a quelle di dom Camara. Ne parla a La Bussola Julio Loredo, presidente della TFP italiana.
    Loredo, potremmo avere dunque un "vescovo rosso" sugli altari?
    Dom Helder Camara è stato una figura chiave del progressismo ecclesiale dagli anni ‘30 fino alla morte, protagonista della svolta a sinistra dell'Azione Cattolica in Brasile. In seno a questo processo è sorta anche la teologia della liberazione. Inoltre negli anni '50 e '60 ha avuto un ruolo centrale nel ricambio (generazionale ma anche ideologico) dell'episcopato brasiliano, favorendo la nomina di prelati progressisti insieme al nunzio dell'epoca, mons. Armando Lombardi.
    Una parabola partita però dal fronte opposto...
    E non da semplice militante: era il numero due del partito filo-nazista Azione Integralista Brasiliana, fondato da Plinio Salgado. Quando fu ordinato sacerdote, nel 1931, sotto la talare indossava la divisa delle milizie integraliste. Grazie a uno studio di Plinio Correa de Oliveira, che ne mostrava l'incompatibilità con la dottrina cattolica, venne meno l'appoggio ecclesiastico al movimento, poi messo fuorilegge dal presidente Getulio Vargas. Dopo la dissoluzione e l'esilio di Salgado, Camara iniziò il suo trasbordo ideologico verso sinistra - che abbiamo descritto in apertura - fino alla teologia della liberazione e alla costituzione di comunità ecclesiali di base (CEB), prefigurate dal pedagogo brasiliano marxista Paulo Freire, ispiratore del Movimento de Educação de Base.
    Come si mosse dom Camara durante il Concilio?
    Pur non avendo mai preso la parola in aula, è stato assolutamente centrale dietro le quinte del Vaticano II. Era lui a coordinare gli incontri fra esponenti dell'ala progressista (curiosamente anche sul fronte tradizionalista la spinta veniva dal Brasile, grazie agli incontri coordinati da Plinio Correa de Oliveira dai quali scaturì il Coetus Internationalis Patrum). In questi anni dom Helder, già parte integrante della teologia della liberazione, portava avanti il dissenso dal magistero anche sul piano morale fino alla critica della Humanae Vitae di Paolo VI e alla difesa dell'aborto.
    Un politico più che un vescovo?
    Nel 1969 tenne un celebre discorso a New York in cui appoggiava il comunismo internazionale. Difendeva l'URSS e la Cina di Mao. Al Sessantotto risale uno degli episodi più scioccanti: il documento Comblin. Nel giugno 1968 trapelò questo documento che pianificava una rivoluzione comunista armata in Brasile. Joseph Comblin era un sacerdote belga, professore presso l'istituto teologico di Recife. Dunque, nella diocesi e sotto l'egida di mons. Camara, il quale non negò l'autenticità del documento, limitandosi a dire che non era ufficiale. Il progetto contemplava, per esempio, l'abolizione della proprietà privata, delle forze armate, la censura di stampa, radio e tv, i tribunali popolari. In pratica una rivoluzione bolscevica in Brasile. Correa de Oliveira raccolse 2 milioni di firme chiedendo l'intervento di Paolo VI per bloccare questa infiltrazione marxista nella Chiesa brasiliana, ma non ebbe risposta.
    Anzi, il controverso presule rimase in carica fino ai 75 anni canonici.
    Nel 1984 Giovanni Paolo II nominò suo successore José Cardoso Sobrinho, che ha cercato di mettere un po' d'ordine nella diocesi, addirittura chiudendo l'istituto teologico e creandone un altro. Nello stesso anno usciva l'istruzione vaticana Libertatis Nuntius che condannava gli aspetti esterni della teologia della liberazione, ma era come chiudere la stalla con i buoi già scappati.
    E lui personalmente non ha mai ritrattato le sue posizioni?
    Non risulta. E alla sua morte, nell'agosto 1999, godeva di una sorta di canonizzazione mediatica. Alcuni giornali italiani titolavano: «Profeta dei poveri», «Santo delle favelas», «Voce del Terzo Mondo», e addirittura «San Helder d'America».
    Una "fama di santità" ideologica, più che religiosa.
    Un'eventuale canonizzazione di dom Helder Camara sarebe la canonizzazione del comunismo, della teologia della liberazione, del dissenso. Lo chiamano già "Santo dei poveri", ma lui difendeva regimi che provocano la povertà, come aveva sintetizzato Indro Montanelli: «La sinistra ama tanto i poveri, che ogni volta che sale al potere ne aumenta il numero». Riguardo alla «falsificazione della fede cristiana» operata dalla teologia della liberazione, Benedetto XVI disse che « bisognava opporsi anche proprio per amore dei poveri e a pro del servizio che va reso loro».
    Nota di BastaBugie: mons. Helder Câmara appoggiava un progetto di rivoluzione comunista per l'America Latina conosciuto come il "Documento Comblin" preparato nel giugno 1968 sotto l'egida di mons. Helder Câmara dal sacerdote belga Joseph Comblin, professore presso l'Istituto Teologico (Seminario) di Recife. Si trattava di un Rapporto destinato al Consiglio Episcopale Latinoamericano. Il documento proponeva, senza veli, un piano eversivo per smantellare lo Stato e stabilire una "dittatura popolare" di matrice comunista.
    In mezzo all'accesa polemica che ne seguì, padre Comblin non negò l'autenticità del documento, ma disse trattarsi "soltanto di una bozza".
    Eccone alcuni punti, riportati dal sito di Tradizione, Famiglia, Proprietà:
    CONTRO LA PROPRIETÀ
    Nel documento, il p. Comblin difende una triplice riforma - agraria, urbana e aziendale- partendo dal presupposto che la proprietà privata e, quindi, il capitale siano intrinsecamente ingiusti. Qualsiasi uso privato del capitale dovrebbe essere vietato dalla legge.
    UGUAGLIANZA TOTALE
    L'obiettivo, afferma p. Comblin, è stabilire l'uguaglianza totale. Ogni gerarchia, sia nel campo politico-sociale sia in quello ecclesiastico, va quindi abolita.
    RIVOLUZIONE POLITICO-SOCIALE
    In campo politico-sociale, questa rivoluzione ugualitaria propugna la distruzione dello Stato per mano di "gruppi di pressione" radicali i quali, una volta preso il potere, dovranno stabilire una ferrea "dittatura popolare" per imbavagliare la maggioranza, ritenuta "indolente".
    RIVOLUZIONE NELLA CHIESA
    Per consentire a questa minoranza radicale di governare senza intralci, il documento propone il virtuale annullamento dell'autorità dei vescovi, che sarebbero soggetti al potere di un organo composto solo da estremisti, una sorta di Politburo ecclesiastico.
    ABOLIZIONE DELLE FORZE ARMATE
    Le Forze Armate vanno sciolte e le loro armi distribuite al popolo.
    CENSURA DI STAMPA, RADIO E TV
    Finché il popolo non avrà raggiunto un accettabile livello di "coscienza rivoluzionaria", la stampa, radio e TV vanno strettamente controllati. Chi non è d'accordo deve abbandonare il Paese.
    TRIBUNALI POPOLARI
    Accusando il Potere Giudiziario di essere "corrotto dalla borghesia", p. Comblin propone l'istituzione di "Tribunali popolari straordinari" per applicare il rito sommario contro chiunque si opponga a questo vento rivoluzionario.
    VIOLENZA
    Nel caso in cui non fosse stato possibile attuare questo piano eversivo con mezzi normali, il professore del seminario di Recife considerava legittimo il ricorso alle armi per stabilire, manu militari, il regime da lui teorizzato.

    Il ministro della Pubblica Istruzione ricorda il male del comunismo

    Il ministro della Pubblica Istruzione ricorda il male del comunismo
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7222

    IL MINISTRO DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE RICORDA IL MALE DEL COMUNISMO di Roberto De Mattei
    In occasione del Giorno della Libertà, istituito dal Parlamento, per il 9 novembre, data in cui nel 1989 fu abbattuto il Muro di Berlino, il ministro della Pubblica Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, tramite i dirigenti scolastici, ha inviato a tutti gli studenti italiani una lettera in cui invita i ragazzi a riflettere sull'anniversario di questo evento che «gli storici hanno molto studiato e continueranno a studiare», ma che merita di essere giudicato anche da chi frequenta le aule scolastiche. La lettera del Ministro non è lunga ed ecco il suo testo integrale.

    TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA DEL MINISTRO
    "Care ragazze e cari ragazzi, la sera del 9 novembre del 1989 decine di migliaia di abitanti di Berlino Est attraversano i valichi del Muro e si riversano nella parte occidentale della città: è l'evento simbolo del collasso del blocco sovietico, della fine della Guerra Fredda e della riunificazione della Germania e dell'Europa. La caduta del Muro, se pure non segna la fine del comunismo - al quale continua a richiamarsi ancora oggi, fra gli altri paesi, la Repubblica Popolare Cinese - ne dimostra tuttavia l'esito drammaticamente fallimentare e ne determina l'espulsione dal Vecchio Continente.
    Il comunismo è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l'immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale. Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l'umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra. Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte. Perché infatti l'utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto - umanità, giustizia, libertà, verità - sia subordinato all'obiettivo rivoluzionario. Prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare. La via verso il paradiso in terra si lastrica di milioni di cadaveri. E si rivela drammaticamente vera l'intuizione che Blaise Pascal aveva avuto due secoli e mezzo prima della Rivoluzione russa: «L'uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l'angelo fa la bestia».
    Gli storici hanno molto studiato il comunismo e continueranno a studiarlo, cercando di restituire con sempre maggiore precisione tutta la straordinaria complessità delle sue vicende. Ma da un punto di vista civile e culturale il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l'Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo. Questa consapevolezza è ancora più attuale oggi, di fronte al risorgere di aggressive nostalgie dell'impero sovietico e alle nuove minacce per la pace in Europa.
    Il crollo del Muro di Berlino segna il fallimento definitivo dell'utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia. Un ordine politico e sociale imperfetto, pieno com'è di contraddizioni, bisognoso ogni giorno di essere reinventato e ricostruito. E tuttavia, l'unico ordine politico e sociale che possa dare ragionevoli garanzie che umanità, giustizia, libertà, verità non siano mai subordinate ad alcun altro scopo, sia esso nobile o ignobile."

    LE REAZIONI
    Con questa lettera Valditara assolve a un compito educativo che è proprio del Ministero di cui ha la responsabilità: istruire e formare le giovani generazioni. Le parole del Ministro si limitano a ricordare ciò che è avvenuto nei Paesi governati dai comunisti, ma la sinistra italiana ha inscenato una pretestuosa polemica contro la sua lettera. Il Partito Democratico ha accusato il ministro di "fare propaganda politica", mentre il segretario di Sinistra Italiana Fratoianni ha affermato che "oggi tocca al titolare dell'Istruzione ergersi sulle macerie del Muro di Berlino, per dare una lezione quanto mai stantia sul comunismo".
    Però in questo mese di ottobre, in occasione del centenario della Marcia su Roma sono usciti una caterva di libri e di articoli rievocando e condannando, giustamente il fascismo, senza che negli ultimi trent'anni, si sia mai sentita qualsiasi condanna del comunismo. Del comunismo possono parlare solo i comunisti, i post-comunisti, i neo-comunisti, ma agli anticomunisti è interdetta la parola. Il vizio ideologico della sinistra è ancora quello che il filosofo Augusto Del Noce denunciava negli anni Ottanta del Novecento: considerare non il comunismo, ma il fascismo, il male assoluto del secolo, e su questo principio costruire una strategia di demonizzazione dei propri avversari politici. Ma mentre il fascismo è storicamente tramontato, il comunismo è ufficialmente professato dalla Cina, ed è ancora esaltato in Russia. Chi, come la sinistra italiana e internazionale, celebra l'antifascismo, ma nega il diritto di condannare pubblicamente il comunismo, dimostra con questo atteggiamento che il comunismo non è morto. Il che conferma quanto sia stata opportuna la lettera del ministro Valditara.

    Tutti i fallimenti di Gorbaciov

    Tutti i fallimenti di Gorbaciov
    TESTO DELL'ARTICOLO ➜ www.bastabugie.it/it/articoli.php?id=7128

    TUTTI I FALLIMENTI DI GORBACIOV di Stefano Magni
    Gli articoli e gli editoriali sulla morte di Gorbaciov, in questi due giorni dopo la sua morte, sono tutti più o meno celebrativi. L'ultimo presidente sovietico fu l'uomo che pose fine alla guerra fredda, dunque viene ricordato soprattutto per il suo ruolo di pace. Ma non si comprende come mai in patria, sia in Russia che nelle altre repubbliche ex sovietiche, sia ricordato con estrema ostilità. Benché rispettato dal nuovo regime, Putin stesso gli ha reso omaggio, non ha ottenuto funerali di Stato. È una figura, ormai storica, divisiva e impopolare. Perché?
    Si fa presto ad affermare che Gorbaciov sia odiato dai nostalgici dell'Urss, che con Putin sono tornati in auge. Certamente, questa fu l'opposizione più visibile ed anche più violenta. Nel periodo dal 1985 al 1989, il Kgb era ben consapevole dei limiti economici, militari e strutturali dell'Unione Sovietica. Fu il Kgb a incoraggiare la promozione di Gorbaciov a Segretario Generale, dopo la morte di Chernenko, approvata poi dal Comitato Centrale con voto unanime. Gorbaciov era già uomo di fiducia di Andropov, storico direttore del Kgb e poi segretario generale dell'Urss dal 1982 al 1984. Gorbaciov venne selezionato perché relativamente "giovane" (54 anni nel 1985) e aperto di mente, ma fedele al sistema comunista. Il Kgb stesso promosse e in un certo senso incoraggiò l'abbandono dei regimi dell'Est europeo, con quella che venne informalmente chiamata la "dottrina Sinatra": ciascuno per la sua strada. Tuttavia, l'atmosfera cambiò repentinamente quando nei regimi ex comunisti le elezioni vennero vinte da partiti non comunisti, a partire dalla Polonia.
    Esercito e Kgb si coalizzarono per impedire che la disgregazione del blocco orientale divenisse disgregazione anche della stessa Urss. E pretesero che Gorbaciov imponesse l'ordine alle repubbliche secessioniste, anche proclamando lo stato d'emergenza. Il segretario generale usò la forza (contro Kazakistan, Georgia, Azerbaigian, Lituania e Lettonia), ma rifiutò il cambio di passo preteso da militari e servizi. Fu questo rifiuto che portò al tentativo di golpe contro di lui, nell'agosto del 1991. Il resto è noto: il golpe fallì, Gorbaciov ottenne una vittoria apparente, ma di fatto aveva già perso il potere. Eltsin, il presidente della Repubblica Socialista Federativa Russa, si oppose in prima persona ai militari e divenne lui il leader politico carismatico della nuova stagione russa che portò alla disgregazione dell'Urss. Dopo il collasso sovietico, esercito, ex servizi segreti, burocrazia statale, non perdonarono mai a Gorbaciov di aver causato il "crollo" dell'impero, di essersi lasciato sfuggire di mano il processo di riforme e decentramento che loro stessi avevano avviato.

    LE REPRESSIONI FINITE NEL SANGUE
    Nelle repubbliche ex sovietiche, al contrario, non perdonano a Gorbaciov quelle ultime repressioni della stagione di sangue del 1986-91, volte a tenere assieme un'Urss in piena frammentazione. In Kazakistan ricordano gli oltre 200 morti civili del massacro di Alma Ata del dicembre 1986. Quando Gorbaciov sostituì il segretario generale locale Dinmukhamed Kunaev con il russo Gennadij Kolbin, i kazaki inscenarono proteste che vennero schiacciate con la forza delle armi. Gli armeni non perdonano a Gorbaciov di aver permesso (o non ostacolato abbastanza) i primi massacri compiuti dagli azeri nel Nagorno Karabakh nel 1988 e 1989. Gli azeri, al contrario, non dimenticheranno mai il massacro di Baku, il "gennaio nero" del 1990, quando le forze regolare e le truppe speciali del KGB entrarono nella capitale azera per stroncare sul nascere il locale Fronte Popolare (indipendentista e anti-armeno), uccidendo da 130 a 170 persone, in gran parte civili, fra il 19 e il 20 gennaio. I lituani non dimenticano la "domenica di sangue", culmine di tre giorni di intervento militare sovietico (11-13 gennaio 1991) contro la repubblica baltica, dopo la sua proclamazione di indipendenza. Mentre il mondo era distratto dalla Guerra del Golfo, che sta appena iniziando, i sovietici nella notte fra il sabato 12 e la domenica 13 gennaio 1991, tentarono di occupare la capitale lituana, a partire dalla conquista della sede della televisione. La folla inerme oppose resistenza, vi furono meno morti rispetto ai precedenti massacri (14 le vittime), ma fu comunque traumatico, il tutto ripreso quasi in diretta dai media locali e internazionali. Contemporaneamente, e per lo stesso motivo, i carri sovietici entravano anche a Riga, ma dopo dieci giorni di confronto fra manifestanti (protetti da numerose barricate in cemento) ed esercito, l'Armata si ritirò. Non prima di aver fatto altri 6 morti, fra cui due poliziotti lettoni.

    I DISSIDENTI RUSSI
    Se nelle repubbliche ex sovietiche vedono in Gorbaciov l'ultimo dei dittatori occupanti, non meno repressivo dei suoi predecessori, anche i dissidenti russi tendono a considerarlo come uno storico bluff. Significativa la reazione di Kasparov, campione di scacchi e poi dissidente: al momento della morte dell'ultimo leader sovietico ha twittato "Come giovane campione del mondo sovietico e beneficiario della perestrojka e della glasnost, ho spinto ogni muro della repressione per testare i limiti improvvisamente mutevoli. Era un periodo di confusione e di opportunità. Il tentativo di Gorbaciov di creare un 'socialismo dal volto umano' fallì, e grazie a Dio". Le pagine più drammatiche di denuncia, le scrisse un altro dissidente, Vladimir Bukovskij, nel suo Gli Archivi Segreti di Mosca: "Per quanto ci affannassimo a spiegare che il sistema sovietico non era una monarchia e che il segretario generale non era uno zar, chi in quel momento non avrebbe comunque augurato il successo al nuovo zar-riformatore? Delle centinaia di migliaia di politici, giornalisti e accademici, solo un minuscolo gruppetto conservò una sufficiente lucidità per non cedere alla seduzione, e un gruppo ancor più sparuto di esprimere apertamente i suoi dubbi".
    La repressione del dissenso interno non finì affatto con l'ascesa al potere di Gorbaciov. Come documenta Bukovskij, dai files presi negli archivi del Cremlino, ancora nel 1987, il KGB organizzava campagne per arrestare i dissidenti, far fallire le iniziative a favore dei diritti umani, impedire l'ingresso di intellettuali e attivisti stranieri. Il tutto era ordinato da Chebrikov, direttore dei servizi segreti, con il pieno appoggio di Gorbaciov. Nella sua monumentale opera Gulag, la storica Anne Applebaum, ci ricorda come gli ultimi campi di concentramento vennero chiusi nel 1992, l'anno dopo la fine dell'Urss. "Tipica di quel periodo è la vicenda di Bohdan Klimchak - scrive la Applebaum - un tecnico ucraino arrestato per aver tentato di lasciare l'Unione Sovietica. Nel 1978, temendo di essere arrestato con l'accusa di nazionalismo ucraino, aveva varcato la frontiera sovietica con l'Iran e chiesto asilo politico, ma gli iraniani lo avevano rimandato indietro. Nell'aprile 1990 era ancora detenuto nella prigione di Perm. Un gruppo di congressisti americani riuscì a fargli visita e scoprì che, in pratica, a Perm la situazione rimaneva immutata. I prigionieri si lamentavano ancora per il freddo che dovevano patire e venivano rinchiusi nelle celle di rigore per 'reati' come il rifiuto di allacciare l'ultimo bottone dell'uniforme".

    LE MALDESTRE RIFORME ECONOMICHE
    Tuttavia fu un altro prigioniero politico ucraino, Anatolij Marchenko, che determinò un primo grande cambiamento nel sistema concentrazionario sovietico. Per protesta contro le orribili condizioni degli internati nei campi, intraprese lo sciopero della fame e fu lasciato morire l'8 dicembre 1986. La vicenda fece scalpore anche all'estero e Gorbaciov si decise ad approvare un'amnistia generale. Non fu, appunto, la fine del sistema dei campi in quanto tale (che come abbiamo visto chiuse solo nel 1992), ma la fine del Gulag come metodo statale repressivo. Il Kgb accettò, sia secondo la Applebaum, che secondo voci dissidenti come quella di Bukovskij, perché l'amnistia ormai "costava" poco al regime. Non si doveva fare alcuna retromarcia ideologica: i prigionieri, graziati, dovevano comunque firmare delle dichiarazioni di pentimento. E giunti alla fine degli anni Ottanta, la dissidenza, ridotta allo stremo, non era considerata più un pericolo per il regime, come si legge dai documenti di allora.
    I dissidenti sono, appunto, una minoranza. La maggioranza dei russi ha pessimi ricordi di Gorbaciov per le sue maldestre riforme economiche. "Mi trovai ben presto - ricorda l'allora ambasciatore Sergio Romano al Corriere - ad osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic (Gorbaciov, ndr) di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una 'industria sociale': ma non spiegò mai in cosa consistesse".
    Gli anni di Gorbaciov furono anni di ristrettezze. E anche di proibizionismo dell'alcool, che aggiunse ulteriore disperazione ad uno scenario lugubre di suo, con code per il pane e razionamenti. Particolarmente catastrofica fu la "riforma monetaria" del 22 gennaio 1991. A sorpresa, nottetempo, per stroncare i proventi del lavoro nero e del contrabbando, vennero confiscate tutte le banconote da 50 e 100 rubli. La procedura di sequestro permise di ritirare dalla circolazione 14 miliardi di rubli in contanti, ma bruciò i risparmi di decine di milioni di sovietici, soprattutto quelli più benestanti.